venerdì 28 ottobre 2016

«Luigi, sto per affondare!»


Un breve racconto tratto da il libro:
edizione il Frangente - Settembre 2016

Un amico svizzero da poco conosciuto rischia l’affondamento nella darsena dello Yacht Club Argentino, ma riusciamo a portare la barca in un cantiere dove sarà riparata.

Erano passati solo pochi giorni dal nostro arrivo a Buenos Aires e già s’era consolidata la piacevole abitudine di un aperitivo serale nei locali del club con il mio nuovo amico André. Mentre lo attendevo comodamente sprofondato in una sontuosa poltrona rivestita in cuoio mi godevo il raffinato interno in stile old navy della club hause, domandandomi come mai l’amico non fosse puntuale come d’abitudine. La precisione era, infatti, una delle più spiccate caratteristiche d’André, un simpatico svizzero tedesco di una settantina d’anni che era arrivato a Buenos Aires da Usuhaia dopo aver compiuto più della metà del giro del mondo in solitario.
La grande figura d’André, resa ancora più imponente dalla candida capigliatura e dalla folta barba bianca che gli incorniciava il viso, comparve improvvisamente e, restando in piedi, disse nel suo italiano pesantemente alterato dall’accento svizzero-tedesco:
«Luigi, non possiamo prendere aperitivo, mia barca sta affondando!»
Il tono era lo stesso di chi avesse semplicemente detto: «Scusa il ritardo», o qualsiasi altra banalità di convenienza.
Non possedendo la sua flemma teutonica balzai prontamente in piedi e a passo di carica lo precedetti verso la sua barca, un pesante cutter in acciaio con lo scafo a spigolo, poco aggraziato, ma che emanava una sensazione di grande efficacia e che per il momento pareva galleggiare ancora egregiamente. All’interno la situazione era però differente, i palioli sollevati rivelavano la sentina allagata e una sorta di piccolo geyser zampillava quasi al centro della nera pozzanghera facendo ribollire l’acqua tutt’attorno.
Navigatore forse fin eccessivamente essenziale, André aveva solo 16
una potente pompa di sentina a mano, che per di più era situata nel locale wc poiché con una valvola a due vie assolveva bene, a suo dire, entrambe le funzioni!
Non vi era molto tempo da perdere in spiegazioni e lasciai l’amico alla sua pompa a mano per correre a bordo del Jonathan, da cui ritornai in pochi istanti munito di una pompa elettrica a immersione, che avevo a bordo come rispetto, e di due barattoli di stucco epossidico sottomarino, un vera e propria ruota di scorta per un imbarcazione.
La mia pompa elettrica e le vigorose pompate manuali d’André ridussero in breve tempo il livello dell’acqua in modo che fu possibile vedere con chiarezza il punto d’ingresso; lo zampillio giungeva da uno dei tanti bulloni che fissavano una flangia metallica che chiudeva il vano della pinna di deriva in cui era collocata la zavorra in lingotti di piombo. Con lo stucco epossidico sottomarino riuscimmo a ridurre l’entrata d’acqua a un sottile rivolo perfettamente controllabile, ora si trattava di migliorare la tenuta con successivi strati di stucco tenuti in pressione da una lastra metallica e da una serie di lingotti in piombo presi dalla zavorra della barca; finalmente più rilassati, era giunto il momento delle spiegazioni.
Così André mi raccontò che in una baia dei canali cileni aveva urtato con la pinna uno scoglio, ma grazie alla solidità della sua barca ne era uscito senza apparenti danni e in seguito aveva navigato nel canale di Beagle e risalito tutta la costa dell’Argentina senza vedere mai entrare neppure una goccia d’acqua. Solo ora si rendeva conto che nell’urto doveva essersi creata una falla e che l’acqua che era penetrata nel cavo del piano di deriva; era stata fino ad allora trattenuta solo dalla flangia imbullonata, pensata per l’unico scopo di tenere in posizione la zavorra e non certo per la tenuta stagna all’acqua di mare o, come nel presente caso, di fiume!
Era evidente che si rendeva necessario alare con urgenza la barca in secco per vedere il danno e ripararlo, purtroppo però non era una cosa tanto semplice, infatti in Argentina all’epoca era ancora vietato mettere a terra imbarcazioni con bandiera straniera e inoltre nell’area i club che avevano un travel-lift sufficientemente potente per alare una barca pesante come quella dell’amico André erano pochi. La vita dei club nautici di Buenos Aires era poi ulteriormente complicata dal fatto che, essendo appunto organizzazioni private e non cantieri o marine pubblici, per qualsiasi decisione appena fuori da quelle di consueta routine era necessaria l’autorizzazione del
Consiglio Direttivo del club stesso. Sembrava proprio che l’unica soluzione possibile fosse una navigazione di 170 miglia fino alla Marina di Piriapolis in Uruguay; per di più ci trovavamo all’inizio dell’inverno australe, con il rischio d’imbattersi in un fronte freddo antartico, non certo le migliori condizioni di navigazione per una barca buona ma ferita.
La sera, dopo cena, parlandone con Silvia, lei mi ricordò di Raul, un argentino che avevamo conosciuto in una sosta fatta a Piriapolis appena arrivammo sul Rio. Raul ricopriva un importante carica nell’amministrazione della capital federal e, sapute le mie origini in parte argentine e la nostra intenzione di navigare fino a Buenos Aires, s’era premurato di raccomandarsi di farci vivi quando fossimo arrivati, aggiungendo anche che di qualsiasi cosa avessimo avuto bisogno avremmo potuto rivolgerci a lui. In effetti già il giorno seguente il nostro arrivo allo Y.C.A. gli avevamo telefonato ed era venuto a pranzare, in questo caso nostro ospite,6 nel lussuoso ristorante del club e ci aveva anche procurato un ormeggio per un lungo periodo al Club Naval de Nuñez, dove avremmo dovuto spostarci pochi giorni dopo e dove in seguito avremmo fatto base per più di un anno.
La mattina seguente chiamai subito il potente amico e al pomeriggio la segreteria del club ci avvisò che il giorno dopo avremmo dovuto portare la barca alla base del club sul fiume Tigre, dove un travel-lift era pronto per metterla a terra!
In qualsiasi parte del mondo ci si trovi delle buone conoscenze aprono tutte le porte!
Una profonda depressione situata in Atlantico, diverse miglia al largo della foce del Rio de la Plata, avrebbe attratto per il giorno seguente un primo afflusso d’aria fredda da ovest in asse con l’andamento del Rio, proprio la perfetta direzione contraria al nostro obbligato senso di navigazione, avremmo dovuto compiere tutto il tragitto a motore, perché sul Rio bisogna navigare forzatamente all’interno dei canali dragati e sarebbe stato praticamente impossibile bordeggiare con le vele, ma non avevamo scelta, si doveva per forza andare.
Ricordo ancora quella navigazione come una delle più scomode mai fatte; al freddo vento da ovest s’erano aggiunti degli sferzanti piovaschi con la pioggia stirata orizzontalmente dal vento e la visibilità fortemente ridotta, ci alternavamo mezz’ora di timone e mezz’ora di pompa, perché con il movimento la riparazione di fortuna teneva sempre di meno e la pompa di sentina elettrica non riusciva a compensare l’afflusso d’acqua. Il timoniere doveva stare molto attento a evitare il traffico commerciale dei grandi cargo che percorrevano il rettilineo canale Emilio Mitre che collega il Rio Paranà al porto di Buenos Aires, non vi era neppure la possibilità d’uscire dalle boe del canale per facilitare gli incroci, perché al di fuori di queste la profondità del Rio era di poco più di un metro.
Con i forti venti da ovest aumenta anche l’intensità della corrente contraria e il Rio ha la tendenza a svuotarsi in Atlantico rendendo ancora più probabile il rischio di un incaglio, cosa che puntualmente avvenne quando avevamo percorso due terzi del tragitto e ci trovavamo in un canale laterale del Rio Parnà, il Canal Vinculation. Anche in questo caso André rimase imperturbabile e, mentre io reprimevo una serie di colorite imprecazioni che mi sorgevano prepotenti alle labbra, manovrò con calma sulla deriva già ferita fino a riuscire a disincagliarsi.
Sebbene la pioggia fosse finita e il vento ora ci soffiasse a favore, le ultime miglia furono quelle in cui restammo in maggiore apprensione: anche ai nostri occhi poco esperti osservando le sponde del canale era evidente che l’acqua continuava a scendere, unica consolazione, se anche ci fossimo nuovamente insabbiati di certo non avremmo mai potuto affondare in così poca acqua!
Alla fine sul calar del sole raggiungemmo la sede del club e, posizionata subito la barca tra le cinghie del travel-lift, André m’offri una cena ristoratrice.
Più tardi con un taxi ritornai a Buenos Aires e al club, dove ebbi una sorpresa: invece di salire a bordo del Jonathan, dovetti scendervi, infatti la darsena s’era quasi completamente svuotata d’acqua e la barca giaceva leggermente sbandata con la deriva completamente immersa nella molle fanghiglia del fondale del Rio de la Plata.

Una giornata faticosa ma emozionante e con la consapevolezza d’aver dato una giusta mano a un fratello navigante! 


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