domenica 17 settembre 2017

Un nero lampo di luna

In quel mezzodì di luglio, il sole picchiava duro sulla sterrata mentre scendevo, alzando un nuvolone di polvere, verso casa. In lontananza il mare di un azzurro intenso, brillava immoto, la rada vegetazione dell’isola era già ingiallita, resistevano solo i cespugli di capperi, le viti e i fichi d’india. Fatta l’ultima curva m’apparve il tetto delle scuderie e al rombo del fuoristarada fece eco il forte nitrito di Fosca, la mia giumenta anglo-araba, a cui rispose una altro nitrito, più forte e più roco che non conoscevo ed ero certo non appartenesse a nessuno dei miei cavalli. Giù più in basso, dove si acquattava sornione il grande mulino di nera pietra, che era casa mia, di fianco ai pali dell’incannizzato un grande cavallo nero come una notte senza luna, puntava le piccole orecchie falcate nella mia direzione, accovacciata a terra, la schiena appoggiata al palo, un logoro cappello di paglia a nascondere il volto, stava una figura maschile. Non ebbi più alcun dubbio circa l’identità dei miei inaspettati visitatori, si trattava di Furia, l’anziana giumenta di “Agostino u fodde”, grande cavaliere e inveterato bevitore, che di tanto in tanto faceva irruzione al galoppo sfrenato nel piazzale delle scuderie, inscenava una sorta di carosello, e poi lanciando dietro di se una bottiglia vuota si dileguava tanto improvvisamente quanto era comparso. Quella volta c’era però qualcosa di diverso, sia la cavalcatura che il cavaliere avevano perso la loro consueta baldanza, parevano entrambi appannati, quasi si fossero arresi di fronte a un evento ineluttabile. Agostino non si mosse al mio arrivo, ma rivolse verso di me i suoi chiari acquosi occhi, come suo solito il volto solcato da profonde rughe era cosparso da una cespugliosa e rada barba grigia, ciocche di capelli grigiastri fuoriuscivano, quasi volessero fuggire altrove, dalle falde del consunto sombrero; una banda di colore e natura indefinibili gli cingeva il collo; la banda sorreggeva il braccio destro avvolto in una improvvisata fasciatura.
L’immagine diceva molto di più delle parole, del resto per me poco intellegibili dato l’eloquio in stretta lingua pantesca, di Agostino; dico lingua e non dialetto perché l’idioma era andato formandosi nel corso di lunghi e svariati influssi, dai Punici, ai Romani, agli Arabi, ai Normanni agli Aragonesi, ai Siciliani e anche in ultimo agli Italiani, ma questi per scontati motivi temporali ancora poco influenti!
Agostino s’era fatto male, e sapendo di non poter accudire la sua cavalcatura, aveva pensato a me “Quello dei cavalli”, per risolvere il suo problema. L’uomo non era nuovo a vistosi incidenti, ancora si narrava di quando una notte, rientrato, guarda caso brillo, pensò di mettere la “barda” a un giovane torello, che evidentemente non gradi molto il trattamento e mandò il suo improvvido cavaliere all’ospedale. Anche questa volta Agostino sarebbe finito all’ospedale, ce lo avrei portato io dopo aver sistemato la sospettosa Furia in un box libero, ma il motivo dell’incidente era di certo meno avventuroso, capii, infatti, che era semplicemente inciampato sull’uscio di casa rientrando a notte fonda nel suo abituale stato d’ebrezza.
Agostino mi diede una rapida lezione di come sellare l’ombrosa sua cavalcatura, infatti, al mio primo tentativo rischiai un funambolesco calcio portato da dietro verso l’avanti, il segreto stava nel non posizionarsi mai a poppavia del garrese!
Furia non era una cavalcatura per chiunque, abituata com’era al polso ferreo e al carattere intrepido del suo cavaliere, decisi quindi che l’avrei montata io per accompagnare i miei ospiti in passeggiata. Una delle mattine seguenti all’arrivo di Agostino, mi trovavo, con due altri cavalieri abbastanza esperti, sulla lunga sterrata di contrada Rukia, i mie accompagnatori erano d’accordo per un piccolo galoppo; non appena toccai con i talloni i fianchi di Furia, questa si lanciò in una lunga ed elastica falcata, ben diversa dal galoppino contenuto che sarebbe stato nelle mie intenzioni. Subito per prima cosa pensai che ero ben felice di non aver sostituito il severo morso dalle lunghe leve con un imboccatura più dolce, non avrei mai potuto fermarla! L’andatura era però piacevolissima, elastica confortevole e potente al medesimo momento, ad un certo punto l’anziana giumenta incespicò sullo sconnesso fondo della sterrata, e già mi vidi lanciato a pelle di leopardo a gratuggiarmi sul ruvido terreno, ma Furia, senza rallentare l’andatura si risollevò e riprese la sua corsa che a malincuore controllavo per rispetto ai miei ospiti. In quel primo galoppo non potei fare a meno d’immaginare le galoppate di Furia e Agostino nelle storiche corse che si disputavano attorno allo Specchio di Venere, e che erano seguite con passione e tifo sfegatato da tutta la popolazione. Non mi era difficile immaginare Agostino ben piantato sulla sua barda in iuta e senza staffe, leggermente chinato in avanti, le brigle corte mosse con ampi movimenti a incitare l’allungo della giumenta, galoppare in un nugolo di polvere tra schiamazzi, urla d’incitamento, frastuono di zoccoli, pesante afrore di effluvi equini e umani condurre Furia alla testa del gruppo e vincere di una buona lunghezza sul gruppo scatenato nella sua scia!

Passò quasi tutta l’estate e ormai m’ero abituato al carattere un ombroso rustico di Furia, che ben nutrita aveva arrotondato le sue forme spigolose, ora sfoggiava un mantello lucido con riflessi bluastri, e anche lei pareva si fosse abituata alla nuova vita e a un diverso cavaliere, perché ben inteso, non la feci mai montare a nessun altro. Di Agostino non avevo ricevuto notizie, pareva scomparso nel nulla, non andai mai a cercarlo, perché in realtà avere Furia non mi dispiaceva affatto, e quindi nel reciproco silenzio pensavo che le cose potessero restare così sospese; una notte di luna però fui svegliato da un forte nitrito, udii un veloce calpestio di zoccoli, quando uscii fuori feci appena in tempo a scorgere in un lampo di luna la nera groppa di Furia che saltando muri a secco galoppava verso Bukkurham, seppi allora che Agostino, l’ultimo ginnete di Pantelleria era tornato a casa!

domenica 28 maggio 2017

Il Grande Marinaio


Non in tutti in racconti di mare ci deve essere necessariamente la vela, ne ”Il Grande Marinaio” di Cahterin Poulain, si possono ritrovare l’amore per il mare, non quello azzurro ceruleo del Mediterraneo o dei Tropici, ma quello corrusco e a volte gelido del nord, una grande sete di libertà e d’avventura, e “en passent”, anche l’amore tutto umano. che però mai potrà contrastare del tutto e far venir meno quello per i primi due.
Una storia autobiografica di una giovane straordinaria donna, instancabile viaggiatrice, graziosa, piccola e minuta, ma dotata di un incredibile forza sia fisica che morale, che per un lungo periodo della sua vita si è imbarcata sui pescherecci dell’isola di Kodiak in Alaska condividendo una dura vita cameratesca con uomini avvezzi a ogni fatica, a sbronze colossali e a dirompenti appetiti sessuali a cui Lili, la protagonista, sa benissimo dire di no.
Il romanzo, scritto, a partire dai propri appunti, dopo che Chaterin fu espulsa nel 2003 dagli “States” per immigrazione illegale; narra con uno stile diretto, asciutto e forte i momenti salienti della sua avventura come pescatrice nell’oceano del nord. Durante la lettura sono stato letteralmente trasportato in burrasche con grigie onde di oltre dieci metri, mentre si doveva continuare a lavorare su un ponte instabile reso sdrucciolevole dalle onde e da sangue delle prede eviscerate; ho sorbito scipiti caffe nei turni di guardia protetto dalla timoneria, alla luce incerta di un vecchio radar a tubo catodico: assaporato l’odore e il senso della fatica in un angusto quadrato col pavimento invaso da cerate puzzolenti di pesce; goduto il piacere dell’arrivo in un protetto porto e l’accoglienza di un fumoso pub affollato da marinai e vecchi indiani alcolizzati. Ho seguito Lili nel suo unico breve amore con il “Grande marinaio” assaporando la dolcezza di un caldo rapporto umano, ma con la consapevolezza che neppure l’amore più coinvolgente avrebbe potuto ingabbiare il suo spirito libero.


martedì 16 maggio 2017

Gérard Borg, un navigatore delle origini


Gérard Borg è poco conosciuto dalla gran parte del pubblico di appassionati di nautica e di viaggi per mare, ma ritengo sia un personaggio importante che può ben reggere il confronto con altri più blasonati navigatori delle origini del viaggio a vela per diporto.
La sua importanza sta tutta nell'apparente semplicità ; un uomo comune, una sorta d'anti eroe della nautica, che però in un epoca ancora non invasa dalle gesta di Moitessier - i loro percorsi che forse mai neppure s'incrociarono, presero le mosse nella medesima periodo - fece una scelta di vita da vero precursore partendo alla chetichella senza grandi dichiarazioni d'intenti o lanciando roboanti proclami.
La storia dei suoi viaggi ci è giunta tramite un libro da lui scritto “Les Tetragonautes” edizione Calmann-Lévy del 1967, ne fu fatta anche un edizione tradotta in italiano, purtroppo ormai introvabile.
Gérard Borg, a dispetto del nome non era nordico, ma francese, nei primi anni '50 si trovava a Rio de Janeiro dove esercitava la professione di medico-ipnotizzatore, e aveva una numerosa clientela che trovava grande beneficio sia fisico che psicologico dai suoi trattamenti.
Nonostante avesse una buona vita in un paese di certo piacevole e accogliente, la sua professione lo soddisfaceva sempre di meno; i pazienti erano spesso vacui e petulanti, una ricca coppia arrivò perfino a chiedergli d’ipnotizzare il loro piccolo cagnolino per liberarlo dai paurosi incubi notturni che lo affliggevano!

Fu questa forse la famosa “goccia che fa traboccare il vaso”.
Gérard, che da bambino povero s’era ripromesso di divenire ricco, scopri presto che con la sua professione, forse avrebbe anche potuto diventarlo, ma di certo non sarebbe stato ne felice e ne libero; considerò allora che era preferibile essere ricchi di tempo e di libertà, piuttosto che di denaro, e decise di “mollare tutto” e cambiare vita.
Nella baia di Rio de Janeiro scovò Ina, un autentico Colin Archer costruito in Norvegia nel 1930, senza esitazioni acquistò la solida e anziana barca, e totalmente privo, sia d'esperienza come velista sia di conoscenze dell'arte della navigazione; nella primavera del 1955 partii iniziando un vagabondaggio per mare senza una precisa meta, da solo, o con occasionali compagni d’avventura.
Ben presto in uno dei suoi viaggi incontrò Yamashiro, una piccola e apparentemente delicata geisha che diverrà la sua compagna di vita e di navigazione.
La coppia si stabili a vivere stabilmente su Ina. Dopo l' Atlantico viaggiarono pigramente per tutto il Mediterraneo, alternando alla navigazione periodi in cui stavano più fermi e Gérard rimpinguava la cassa di bordo con la sua professione di medico-ipnotizzatore (un volta riuscii perfino a fare un operazione chirurgica su un paziente privo d'anestesia e solo ipnotizzato), segui il Mar Rosso, l'indiano e quindi il Pacifico.

Un vero viaggio all'insegna della lentezza e del desiderio d'assaporare e capire fino in fondo i porti toccati e le amicizie incontrate, Gérard amava definirsi il viaggiatore per mare più lento della storia; difficile fare un paragone, ma quantomeno ho il sospetto di potergli contendere questa palma!
Nel suo libro raccontacon acuto spirito d'osservazione, gli aneddoti di viaggio e gli inevitabili momenti di tensione in navigazione, dove anche l'uomo più comune deve divenire coraggioso; è sempre ironicamente autocritico, mai autoreferenziale e le sue descrizioni dei bizzarri personaggi incontrati, delle disavventure burocratiche o degli inevitabili momenti di tensione e difficoltà sono narrati con sottile umorismo, in certi casi le sue avventure sono realmente esilaranti, anche in virtù dello stile di scrittura libero e informale.
Ironica e pungente anche l’analisi di tutti i problemi della vita su di una piccola barca a vela, certo più spartana ed essenziale di quelle che navigano oggi, ma da cui in ogni caso si possono trarre utili e attuali insegnamenti.
Per concludere un vero viaggiatore per mare, direi uno degli esempi migliori e più facili da voler prendere come modello.


domenica 7 maggio 2017

Alain Gerbault e il sogno delle isole del sud Pacifico


Considerato un eroe dalla madre patria, la Francia, che gli eresse una stele nel luogo della sua sepoltura sull'isola di Bora Bora, è scarsamente conosciuto in Italia e poco o mal considerato nel mondo anglosassone; Jean Merrien nel suo “I solitari degli oceani” - Mursia – descrive il primo giro attorno al mondo di Gerbault come quello di un dilettante, costellato da errori a cui solo la fortuna poté porre rimedio, però Gerbault ha contribuito parecchio a delineare la figura dei futuri viaggiatori a vela, e il più noto di questi fu senza dubbio Bernard Moitessier che ispirò molta della sua filosofia di vita a Alain Gerbault.
Non voglio parlare di Gerbault per le sue doti di marinaio e navigatore, ma piuttosto per il lato più idealista, intellettuale e sognatore, a volte al limite del misticismo, che hanno fatto di lui uno dei maggiori viaggiatori per mare del secolo appena trascorso. 
Aviatore, tennista professionista e raffinato esteta, Gerbault durante un suo soggiorno in Inghilterra, dove si era recato per partecipare a un torneo di tennis, vide a Soutahampton, il Fire Crest, un anziana imbarcazione da regata; s'innamorò delle sue linee fini ed eleganti e la comperò, già presagendo grandi e gloriose traversate. 
In questo fu forse anche un imitatore dell'argentino Vito Dumas, che nel 1931 acquistò in Bretagna il Sirio, una barca da regata assolutamente inadatta ad attraversare gli  oceani, Dumas però la comperò proprio  per ritornare in patria in Argentina; il Sirio costava, infatti, tanto quanto un passaggio su un piroscafo!  Gerbault e Dumas hanno almeno un altro punto in comune: prima della partenza erano entrambi totalmente a digiuno dell'arte della navigazione che appresero nel corso dei loro viaggi, le similitudini tra i due però finiscono qui.  Dumas grandissimo uomo di mare, non fu un viaggiatore, almeno nell'impresa che lo rese celebre, ossia il giro del mondo in solitario alla latitudine dei 50° (i cinquanta ruggenti), mentre Gerbault, scarso e poi semplicemente corretto marinaio fu un grande viaggiatore che contribui con i suoi scritti a diffondere la passione per il viaggio per mare e per le incantate isole del Sud Pacifico che rappresentavano per il sofisticato marinaio-viaggiatore l'ideale di un paradiso primitivo perduto.
Gerbault, estimatore della vita e delle opere di Gauguin, appassionato e attento lettore di Stevenson e London, aveva sviluppato un innamoramento per le isole del sud Pacifico, e questa fu di certo una delle molle che lo spinsero a intraprendere il suo viaggio.
Gerbault salpò da Cannes il 25 di aprile del 1925; il  Fire Crest (Cresta di Fuoco), si rivelò subito una barca pesante per un solitario non particolarmente esperto, inoltre era bassa di bordo e la navigazione divenne spesso molto bagnata, ma Alain con la perseveranza e quasi la testardaggine che sempre lo caratterizzeranno, proseguii il suo viaggio; venne accolto come un eroe a New York, prosegui poi per i tropici, passò Panamà e giunse al fine nelle isole che tanto lo colpiranno e in cui in seguito si trasferirà stabilmente. 
Fedele al programma iniziale rientrò  il 2 di agosto del 1929 trionfante a St Malò, sua città natale.
Dopo quattro anni a girovagare per mare, in cui aveva sperimentato la più totale adesione con la natura e una naturale propensione a capire e integrarsi con quelle culture tanto vicine al suo sentire, il mondo civile moderno in cui si ritrovò dopo il suo rientro, gli stava sempre più stretto.
Cedette l'anziano e ormai provato Fire Crest alla marina francese per farne una nave scuola e si fece costruire una nuova barca, più piccola, più leggera e in definitiva più marina, che con notevole immodestia battezzò col proprio nome: Alain Gerbault !
Il povero Fire Crest, sembra non avesse gradito molto l'abbandono da parte del suo armatore con cui aveva condiviso tante avventure e più di una volta rischiato di soccombere definitivamente, e  durante il rimorchio con cui avrebbe dovuto essere spostato a Cherbourg, decise di colare a picco e chiudere così i suoi giorni.
Due anni dopo essere rientrato Gerbault salpò nuovamente, questa volta, marinaio ormai maturo e su una barca più adatta del nervoso e glorioso Fire Crest, compii una navigazione assolutamente corretta fino alle Marchesi, dove si fermò in modo quasi stabile continuando però a navigare tra le isole, e scrivendo i suoi libri che molto contribuirono a creare il mito delle isole del sud negli aspiranti navigatori del vecchio continente.
Gerbault aveva fama d'essere piuttosto tirato nelle spese e di vivere con pochissimo, nonostante dalla sua precedente carriera di tennista e con la pubblicazione dei suoi libri, che riscossero un discreto successo, di certo non doveva mancare di fondi. È appurato che teneva le sue riserve sotto forma di lingotti d'oro rivestiti da una sottile pellicola di piombo confusi tra quelli della zavorra.

Almeno una volta è noto che a Papete usò le sue riserve auree come garanzia per ottenere un prestito bancario. 
Può essere questo un buon suggerimento per gli odierni viaggiatori dei mari poco fiduciosi nell'andamento dell'economia globale!
Gerbault fece naufragio nel 1941su un reef presso l'isola di Timor portoghese, raccolto esanime spirò poco dopo in un ospedale a Timor; la sua barca l'Alain Gerbault, con la sua preziosa zavorra non venne mai ritrovata.
Alla fine del conflitto mondiale la Marina francese inviò una spedizione a Timor che recuperò le spoglie del navigatore per essere poi tumulate con tutti gli onori a Bora Bora, o Pora Pora come con un affettuoso vezzo amava chiamarla Alain Gerbault.
Tutta la filosofia di vita d'Alain Gerbault è racchiusa in queste sue parole quasi profetiche:

“Benché da secoli l’uomo sia abituato a vivere schiavo della civiltà, io non sarò costretto a fare la stessa vita servile e convenzionale. Padrone della mia barca, me ne andrò attorno per il mondo, ebbro di aria, di spazio, di luce, facendo la vita semplice del marinaio, bagnando nel sole un corpo che non è stato creato per essere prigioniero delle case costruite dagli uomini. E tutto felice di aver trovato la mia strada e realizzato il mio sogno, mentre sto alla barra , recito le mie poesie preferite sul mare…”.

lunedì 23 gennaio 2017

La solitudine dell'assassino - Andrea Molesini

“La Solitudine dell’assassino”, l’ultimo libro di Andrea Molesini non è strettamente un racconto di mare, e quindi non dovrei parlarne in questo Blog, che però ha per titolo: “Storie di mare e altro...” , ma il mare è sempre presente nei libri di Andrea Molesini, che è anche un bravo marinaio e un amante delle barche, quelle vere che hanno un anima!

Fin dalle prime pagine sono stato colpito da questo passaggio, che trasmette una grande verità; lo riporto integralmente:
Lo sciabordio dell’acqua, il sibilo della brezza sugli alberi, gli stralli, le sartie degli yacht ormeggiati, in attesa dell’estate. C’è un canto sommesso e sinistro nelle barche che non navigano. Una barca è una promessa d’avventura e, lontana dai frangenti, da Lestrígoni e Ciclopi, si fa tana di ratti, nido di alghe e molluschi.”
Nel complesso rapporto tra l’io narrante (un traduttore e scrittore) e Malaguti, l’anziano ex ergastolano incarcerato per omicidio, s’instaura tra i due una singolare amicizia e lentamente si svela il segreto della vita dell’ex galeotto, che non era un rozzo criminale, ma bensì un colto bibliotecario, dalla complessa personalità.

Un importante momento d’unione, e anche di conflitto, tra l’io narrante e “l’assassino” è avvenuto durante una lunga crociera da Trieste a Itaca a bordo di un elegante cutter classico; un altro passaggio in cui si respira il sapore del mare e dell’avventura.
Pochi scrittori contemporanei hanno su di me la capacità di catturarmi nel loro mondo e di permettermi di vivere cono loro, come se fossi realmente presente, per tutto il periodo della lettura!

Un libro da gustare anche in ogni singola parola, mai scelta in modo casuale, e tutte concatenate per rendere la psicologia del presonaggio principale e anche quella dell’io narrante, con momenti luminosi e tenebrosi abissi; il tutto sempre con grande umanità.

giovedì 8 dicembre 2016

Una navigazione di ghiaccio!

Abituati alle temperate acque mediterranee, o a quelle calde dei mari tropicali ormai sempre più frequentemente solacate dai diportisti velici, ci si domanda perché navigare in quelle gelide e difficili artiche o antartiche.
Una risposta ce la dà il bel libro di Laura Canepuccia “ SVALBARD – A vela nell’arcilepelago di ghiaccio” per Nutrimenti mare.
Il libro, scritto con uno stile lineare e scorrevole che invoglia alla lettura, narra dell’esperienza di Laura imbrcatasi come hostes e marinaia su una grande barca che al comando di Ian colossale ed esperto comandante olandese, ha un programma di charter (principalmente sci alpinismo + vela estermi) ai margini della calotta artica.
Anche Laura ha origini veliche con lunghe navigazioni mediterranee e caraibiche, ma attraverso la sua difficile esperienza artica ci racconta delle emozioni uniche che solo una natura incontaminata, ostile all’uomo, ma proprio per questo ricca di grande fascini può trasmettere. Un accento particolare è messo sui rapporti umani sia con il proprio comandante che con i rari abitanti locali o gli avventurosi clienti dei charter, rapporti che in quelle condizioni divengono sempre essenziali e veri. Perchè solo in situazioni dove pochi e motivati possono giungere i rapporti e gli incontri possono tornare ad avere quella valenza di riconoscersi tra pari, un tempo comune a tutti gli “uccelli d’alto mare”; rapporti ora appiattiti e banalizzati dalla facilità e dal numero sempre crescenti di navigatori.
Con Laura alla serata di presentazione alla Lega Navale di Trento


Laura, che dice di voler assolutamente ritornare in quelle regioni, ha corredato il libro con foto in bianco e nero, retaggio della sua originale professione; una scelta perfettamente coerente allo spirito del viaggio, in cui la semplicità, l’essenzialità e la necessaria rinuncia a tutto il superfluo è elemento fondamentale.

lunedì 7 novembre 2016

Jack London, un precursore!





“La crociera dello Snark” può essere considerato a buon diritto uno dei primi racconti di mare, assieme a “Nei Mari del Sud” di R.L.Stevenson, e”Solo attorno al modo” di J. Slocum, in cui il motivo del viaggio sia il proprio piacere personale, quindi un viaggio a vela per “diporto”, ma lasciamo che sia il medesimo Jack London a raccontarci come ebbe inizio il suo viaggio a bordo dello Snark:

Tutto cominciò alla piscina di Glen Ellen. Tra una nuotata e l'altra avevamo l'abitudine d'uscire dall'acqua e sdraiarci sulla sabbia, lasciando che i nostri corpi si saturassero di aria calda e di sole.
Roscoe era uno yachtsman. Io ero andato un po' per mare. Era inevitabile che venissimo a parlare di barche. Parlammo di barche piccole e di come tengono il mare; ricordammo il capitano Slocum e il suo viaggio di tre anni attorno al mare con lo Spray.”
Jack London da La crociera dello Snark
Con questa chiacchierata tipica da gentiluomini svagati d'inizio del secolo scorso ebbe inizio l'avventura di London nei mari del Sud e più propriamente forse l'avventura dello Snark un ketch di quarantacinque piedi al galleggiamento (poco meno di quattordici metri) e di diciassette metri
di ponte, dotato di una meravigliosa prua a clipper, che sembrava nata per agguantare i marosi e dominarli.
La “
Gloriosa prua dello Snark” come soleva chiamarla Jack London, per rincuorarsi, nei momenti di sconforto durante la travagliata costruzione della barca; che prosciugò le sue sostanze poiché il preventivo iniziale di tremila dollari lievitò a ben trentamila, costringendo lo scrittore a produrre forsennatamente per far fronte ai creditori sempre più assillanti.
Già dalla partenza la braca diede segnali a dir poco inquietanti: appena varata s'arenò malamente,
il potente motore a benzina e il verricello meccanico a questo collegato andarono in rovinosa avaria nel tentativo di disincagliare la barca, e finirono a fare da zavorra, e dulcis in fundo quando erano pronti alla partenza lo
Snark fu pignorato per debiti.
London, da combattente qual era, non se ne diede convinto e racimolati i denari necessari riuscii a liberare la barca e a salpare da Oahkland nella baia di SanFrancisco, il 23 di Aprile del 1907, con destinazione della prima tappa Honolulu nelle Hawaii: facevano parte dell'equipaggio oltre a Jack la moglie Chariman, lo zio di lei Earmes, Roscoe secondo di bordo, e un cuoco e un marinaio presto rivelatesi inutili perché afflitti dal mal di mare.
Fin dai primi giorni di navigazione lo
Snark iniziò a rivelare i suoi innumerevoli difetti: faceva acqua sia dalla coperta che dal fasciame, tanto che spesso camminavano all'interno con l'acqua alle caviglie, le ferramenta, garantite per indistruttibili, iniziarono a rompersi come se fossero di cartone, il meraviglioso impianto del gabinetto marino, costato una fortuna e orgoglio dell'armatore, si rese immediatamente inservibile, ma la cosa che più amareggiò London fu che la “gloriosa prua dello Snark” si rifiutava di fare fronte al mare!
Durante una burrasca cercarono in tutte le maniere di mettere l'imbarcazione alla cappa, ma lo
Snark si ostinò a restare traversato al mare, fin tanto che London non decise di fuggire in poppa, e allora il bel ketch iniziò a correre sicuro senza nessuno al timone; e pensare che gli esperti yachtsman di San Francisco guardandone le linee avevano sentenziato “Questa barca potrà andare a tutte le andature, ma mai potrà correre con vento e mare in poppa...”!
La lettura di queste prime pagine del gustoso resoconto di Jack London è di sicuro motivo di riflessione e anche di consolazione pure per gli attuali yachtsman, si vede infatti che i guai e le preoccupazioni che assillano la categoria non sono di certo cosa nuova.
Alla partenza London, nonostante fosse già andato diverse volte per mare, era totalmente digiuno di navigazione, sia astronomica che stimata, e durante la travagliata costruzione dello Snack, invitò Roscoe a documentarsi ed apprendere gli arcani misteri della navigazione, lui aveva ben altro a cui pensare!
Fu cosi che Roscoe, assunse, nei primi tempi della navigazione, quasi a dimensione dei semidio,


Jack London e la Crociera dello Snark Luigi Ottogalli
essendo l'unico a poter dire, dopo un oscuro cerimoniale “Noi ora siamo qui!”, a Jack questo stato di cose non piacque, anche perché alcuni dubbi sulle posizioni dell'officiante iniziarono a venirgli; iniziò cosi a studiare la navigazione astronomica per proprio conto e in breve ne venne a capo, considerando che era cosa alla portata di qualsiasi persona dotata di un minimo d'intelligenza, anzi s'avvide che gran parte degli errori di posizione non erano tanto determinati dai calcoli fatti estrapolando le tavole a soluzione diretta, quanto nella perizia di maneggiare il sestante e portare correttamente l'astro a collimazione sull'incerto lontano orizzonte.
Sta di fatto che:
“Ventisette giorni dopo la partenza da San Francisco arrivammo nell'isola di Oahu, nell'arcipelago delle Hawaii. Nel primo mattino scivolammo pigramente attorno a Capo Diamond, finché non ci apparve in pieno Honolulu...”
Un atterraggio perfetto, degno di un navigatore sperimentato!

A Honolulu lo Snark verrà finalmente rimesso in sesto e farà poi rotta per le Marchesi, dove i coniugi London alloggeranno nella casa che fu di Stevenson; fu poi la volta di Bora Bora, le Samoa, le Figi, le nuove Ebridi. In questo modo London ripercorse da vero viaggiatore, il pacifico che fu di Melville e di Stevenson, e lasciò con i suoi scritti pagine indimenticabili vero viatico per i futuri viaggiatori del mare. Il viaggio di London e Chariman si concluderà a Sidney dove lo Snark verrà venduto per un decimo di quanto costò e London malato rientrò con un piroscafo a San Francisco.
I viaggi per mare di London non ebbero però termine con quello dello Snark, lui e la moglie s'imbarcarono nel 1912 a bordo del clipper a quattro alberi Dirigo sotto il comando del capitano Chapman, per un viaggio in cui doppiarono il Capo Horn durato cinque mesi, ma se per London questo fu un altro viaggio per diporto, non lo era per la nave su cui era imbarcato che aveva un fine prettamente commerciale, quindi ben diverso da quello dello Snark e non attinente al nostro argomento.
Personaggio complesso, cantore dell'avventura pura, fautore di un socialismo un poco snob e aristocratico, viaggiatore e vagabondo infaticabile, London rimase sempre fortemente legato al mare, come appunto lui stesso scrisse nel 1912 su Yachting Montly:
“Un uomo che ha frequentato la scuola del mare non la lascia più. Il sale s'impregna nel midollo osseo, nell'aria che respira e sentirà il richiamo del mare fino alla fine dei suoi giorni”.